Aggressività
L’aggressività fa parte della vita e, bene o male, tutti presentano questo tratto anche se magari in misura diversa anche perché l’aggressività ha svolto un importante ruolo nella sopravvivenza dell’essere umano come specie. L’aggressività infatti, in una ottica etologica, rappresenta un istinto di base atto a favorire il proseguimento della specie, inoltre i soggetti più aggressivi hanno maggiori probabilità di vittoria nella competizione per il cibo e per la riproduzione tendendo quindi a trasmettere questo tratto alla prole.
Negli animali, comunque, l’aggressività, soprattutto nelle specie che in caso di combattimento possono arrivare fino alla morte dei contendenti, viene spesso ritualizzata sottoponendola ad un processo di ri-direzione «La ri-direzione dell’attacco è l’espediente più geniale che l’evoluzione abbia inventato per costringere l’aggressività su binari innocui.» facendo entrare in gioco meccanismi di sottomissione che bloccano l’attacco. Questi meccanismi, squisitamente filogenetici, non si attivano nell’uomo; mentre quando, ad esempio, due lupi lottano quello che perde si arrende mostrando la gola e l’altro si blocca e il combattimento finisce, questo non accade tra gli esseri umani: se un contendete va a terra l’altro non solo non si ferma, ma utilizza la posizione di vantaggio.
L’aggressività ha anche un’altra funzione che è quella di determinare la posizione di un individuo all’interno di un gruppo o della società secondo il cosiddetto «principio gerarchico» (Lorenz) per cui conoscendo la propria posizione nella scala gerarchica, il più debole evita di competere con il più forte ed il più forte non attacca il più debole poiché sa che quello starà al suo posto. Questo funziona nel mondo animale ed evita l’estinzione della specie (almeno a causa della aggressività intra-specifica), ma non funziona tra gli esseri umani dove questi meccanismi inibitori naturali non esistono.
Nell’evidenziarsi del comportamento aggressivo negli esseri umani si intrecciano sia componenti fisiologiche che componenti culturali. Alcuni sistemi neurali sono implicati nella sua genesi (Amigdala, Tronco encefalico, Sistema limbico) ed alcuni ormoni sembrano essere coinvolti in particolare nella modulazione di questo tipo di comportamento, come il testosterone che sembra essere presente in quantità maggiore nei soggetti aggressivi. Dato che il testosterone è un ormone maschile, il suo collegamento con i comportamenti aggressivi sembrerebbe spiegare la maggiore tendenza degli uomini, rispetto alle donne, a condotte di tipo aggressivo anche se tutto questo viene poi modulato dalla cultura. Se guardiamo invece la genesi del comportamento aggressivo dal punto di vista dei neurotrasmettitori coinvolti, vediamo che la serotonina mostra una azione inibente, mentre acetilcolina e noradrenalina sembrano avere una azione favorente.
In genere si tende a porre in evidenza l’esistenza di due tipologie principali di comportamento aggressivo.
Si parla pertanto di aggressione ostile, che appare essere impulsiva, connotata da una intensa partecipazione emotiva e da una forte spinta a creare un danno, e di aggressione strumentaleche, invece, è pianificata e portata avanti a mente fredda ed ha lo scopo di ottenere un qualcosa, ma non ha lo scopo principale di creare un danno anche se magari può farlo: il suo scopo principale, infatti, è la ricerca di un tornaconto personale.
Rabbia ed aggressività vengono spesso collegate, ma ricordiamo che essere arrabbiati non implica forzatamente diventare aggressivi: la rabbia, infatti, rappresenta un’emozione che non conduce forzatamente ad una azione.
L’eccitazione prodotta dalla rabbia rende pronti a portare avanti un’azione aggressiva, ma affinché la reazione aggressiva si attui nella pratica sono necessari degli stimoli associati, presenti o precedenti, che inviino segnali adeguati.
Se vediamo l’aggressività in un’ottica di psicologia sociale, possiamo definirla come un comportamento che ha come scopo quello di danneggiare un individuo che non desidera subire il danno. In questa definizione viene quindi specificato che per parlare di aggressività in questo ambito è necessario che sia percepito un intento aggressivo, ad esempio in un incidente d’auto, pur essendoci un danno, non c’è aggressione dato che non c’è l’intento aggressivo, inoltre questo intento deve essere volto anche a danneggiare la persona: il medico che procura dolore nel fare un trattamento necessario non attua un’azione che rientra nell’ambito di un comportamento aggressivo dato che l’intento non è di danneggiare il paziente ma di fargli del bene. Ma sempre in questa ottica, l’aggressione non deve essere forzatamente fisica, ma può essere anche verbale o sociale od anche relazionale. Questi tipi di aggressione, in una società come la nostra, tendono ad essere più utilizzati dato che permettono di aggredire senza apparire palesemente aggressori e quindi mantenendo il rispetto sociale del nostro gruppo di appartenenza. Parlare alle spalle di qualcuno criticandolo, spettegolare, isolare qualcuno dal gruppo, sono tutti esempi di aggressività di tipo sociale che non implicano un confronto fisco, ma che non sono per questo comportamenti meno aggressivi: sono solo più subdoli.
Esistono personalità aggressive?
Ci sono cioè soggetti il cui stile di vita ed il cui modo di relazionarsi è fondamentalmente improntato all’aggressività?
Questa tipologia di personalità, ed il comportamento che ne deriva, ha varie origini che sono sia biologiche che ambientali, inoltre mostra dei tratti in comune con la personalità di tipo narcisistico.
Ma cosa caratterizza una personalità di tipo aggressivo?
Innanzitutto c’è la ricerca della dominanza. Questo si applica nelle relazioni ma anche in qualsiasi altro contesto anche a quelli sociali. Sono soggetti che non tollerano l’autorità, che non sia la loro, e questo li porta spesso ad essere in contrasto con la società. Possono adattarsi formalmente, perché non possono farne a meno, ma dentro continueranno a ribollire. I diritti degli altri interessano loro poco, o meglio, nulla, e se serve possono calpestare i diritti di coloro che stanno loro intorno senza pensarci due volte. Molto semplicemente ritengono che nella vita ci siano vincitori e vinti… e loro vogliono vincere.
Questi tratti aggressivi si possono manifestare a qualunque età anche se con caratteristiche e spesso motivazioni differenti.
Nei bambini il comportamento aggressivo spesso è determinato dal non avere capacità relazionali, o averle carenti, ma anche da comportamenti di tipo imitativo: un bambino che vede comportamenti violenti nella sua quotidianità tenderà a relazionarsi in maniera violenta con gli altri. In caso di comportamento aggressivo in un bambino è necessario che le figure di riferimento stiano attente a come reagiscono: dare molta attenzione al comportamento aggressivo di un bambino può portare al risultato opposto a quello desiderato: l’attenzione è vista come un premio e porta a reiterare l’azione. A questo si possono aggiungere poi i comportamenti violenti che hanno alla base delle vere e proprie patologie come ad esempio l’autismo: ovviamente in questi casi l’intervento deve essere inserito in una terapia complessiva del disturbo che sta alla base e sostiene il comportamento.
Negli adolescenti i comportamenti palesemente violenti tendono ad essere più comuni rispetto a quello che si riscontra nei bambini e negli adulti. Certi comportamenti, tipo discutere violentemente, urlare, avere un atteggiamento che può apparire brusco e maleducato, sono frequenti in un momento di stress e passaggio come quello dell’adolescenza. Tutto questo fino a che non si esagera, se urlare diviene l’unico modo di parlare, se ci sono comportamenti da bullo, se alzare le mani diviene un modo di comunicazione allora è il momento di correre ai ripari.
Nel contesto delle problematiche relative al comportamento aggressivo in bambini ed adolescenti va sottolineata l’importanza del ruolo della famiglia in generale e dei genitori in particolare. Come evidenziato ad esempio nello studio di Wilz e Patterson un appropriato training applicato alle figure genitoriali comporta «[…] una riduzione significativa del tasso di comportamento deviante dei bambini. Nel trattamento della aggressività nel bambino, ma poi anche nell’adolescente, sono necessari, secondo Sukhodolsky e al. oltre alla valutazione delle motivazioni precedenti e delle conseguenze dell’atto aggressivo, «[…] l’apprendimento di strategie per riconoscere e regolare l’espressione della rabbia, le tecniche di risoluzione dei problemi e di ristrutturazione cognitiva […]», ed anche qui si afferma la necessità della partecipazione attiva dei genitori.
Risulta pertanto evidente come non si possa agire solo sul soggetto aggressivo ma sia necessario un intervento terapeutico che riguardi anche l’ambiente socio-familiare.
In caso di comportamenti aggressivi manifesti, a prescindere da chi sia il soggetto, è sostanziale identificare le cause sottostanti questo comportamento e che lo sostengono: infatti questa modalità relazionale ha un suo motivo profondo che va identificato per poter arrivare ad una soluzione.
Necessario appare sia identificare quegli schemi cognitivi che portano ad un comportamento aggressivo, sia comprendere come vengono elaborate le informazioni sociali nei soggetti tendenzialmente aggressivi. La società ha quindi una sua rilevanza nella determinazione dell’attuarsi di comportamenti aggressivi, anche se la maggior parte delle società attuali tende a mostrare modelli che hanno lo scopo di limitare l’aggressività, e questo appare ovvio se si considera che lo scopo della società è di mantenere coeso il gruppo sociale.
Altra cosa importante è che la persona che manifesta comportamenti aggressivi sia guidata verso l’implementazione di strategie che la aiutino ad adottare comportamenti adeguati in tutte quelle situazioni che possono essere causa di frustrazione o di stress ed inoltre può rivelarsi utile cercare di sviluppare nel soggetto l’empatia verso gli altri.
L’aggressività, e di conseguenza i comportamenti aggressivi, sono, come abbiamo visto, non solo un fenomeno complesso ma anche un fenomeno che ha una genesi multifattoriale e che è insito nella natura umana, pertanto se da un lato è sostanziale l’intervento dello psicoterapeuta per porre rimedio alla problematica, dall’altro non dobbiamo dimenticare che è necessario un intervento attivo di tutti quei soggetti che rivestono un ruolo educativo e che quindi possono svolgere una prevenzione attiva.