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  • Essere soli o sentirsi soli

    Essere soli o sentirsi soli

    Le due facce della solitudine.

    Hai mai sperimentato un forte senso di solitudine interiore?

    Ti sei mai sentito solo anche in  compagnia di altre persone?

    Vorrei parlarti della solitudine, quella che puoi provare quando sei solo fisicamente e quella soggettiva, quel sentirti solo che è ben diverso dall’essere effettivamente solo.

    Ti darò anche qualche dato in merito e dei consigli per provare a gestirla e risolverla.

    Se vogliamo parlare della solitudine in cifre, da una indagine recente di Eurostat è risultato che l’Italia è il paese europeo dove più si soffre di solitudine, infatti il 12-13% degli italiani dai 16 anni in su avrebbe dichiarato di non avere nessuno a cui confidare i propri problemi. Cosa

    E secondo il rapporto Istat del 2018, circa 3 milioni di persone hanno dichiarato di non avere una rete di amici o una rete di sostegno e più di una famiglia su 3 è composta da una sola persona, una persona che ha perso il coniuge oppure non sposata o separata.

    Spesso si tende ad associare la solitudine a qualcosa di negativo.

    a mio parere più che altro perché la felicità” nella nostra cultura viene spesso associata al socializzare, allallegria, alle feste, o allessere giovani, e spesso la solitudine, se mi riferisco alla mia esperienza clinica, riguarda molto più spesso le persone dai 50 anni in su, e cresce proporzionalmente con l’età, eccezion fatta per chi si separa o vive esperienze traumatiche che portano ad un ridimensionamento delle esperienze spese in ambito sociale o chi vive particolari situazioni di disagio psicologico, e ultimamente a causa della pandemia, anche molti giovani hanno iniziato a soffrirne.

    Essere effettivamente, fisicamente soli, può essere una scelta ed è possibile vivere comunque una vita piena e appagante anche senza sentire la necessità di frequentare assiduamente altre persone o un partner.

    Al contrario, è possibile avere una relazione fissa o essere parte di una famiglia, e sentirsi soli lo stesso, specialmente se non ci si sente compresi o ci si sente trascurati dalle persone vicine. Questa è una sensazione molto più intima e profonda.

    Mi preme in questo contesto, evidenziare quanto il sentimento di solitudine sia un vero e proprio stato della mente e quanto questo tipo di solitudine, interiore, sia spesso legato a sofferenza psicologica e ad un senso di vuoto, mentre l’essere soli, fisicamente, può essere uno stato oggettivo circoscritto ad un determinato spazio temporale.

    Molte persone amano in questo caso cercare compagnia per divertirsi e appagare questa sensazione di solitudine fisica, mentre altre invece la ricercano attivamente e si sentono completamente appagate perché considerano questo tipo di solitudine come un’occasione per dedicarsi a se stessi.

    Mentre essere fisicamente soli capita a tutti e spesso nella vita, non è invece per tutti provare un senso di solitudine interiore e isolamento doloroso, che a tratti può causare anche molta sofferenza psicologica.

    Le cause di questo tipo di solitudine sono molto profonde, e si accompagnano alla sensazione di non essere compresi o accettati, una sensazione che permane quotidianamente insieme a quel senso di estraneità, cioè il non avere quel senso di appartenenza che è fondamentale per ciascuno di noi per sentirsi parte del mondo e integrati nella propria comunità, nonostante si possano avere numerose frequentazioni o addirittura una relazione affettiva duratura.

    Queste sensazioni di solitudine interiore purtroppo non abbandonano la persona anche se si impegna in attività magari anche piacevoli o se cerca attivamente la compagnia di altri.

    Insomma qui sto parlando del sentirsi soli intimamente, con presenza di pensieri negativi e tristezza in assenza di reali cause che portino a sentirsi così.

    La solitudine può diventare una condizione di sofferenza psicologica molto seria che può portare a disturbi come ansia, depressione, difficoltà relazionali o addirittura vere e proprie dipendenze, ma anche deterioramento cognitivo.

    E se queste sono le conseguenze a livello psicologico, purtroppo ce ne sono anche a livello fisico,

    Problemi cardiaci, ipertensione, diminuzione del funzionamento del sistema immunitario, infiammazione dell’organismo, obesità, diabete di tipo 2 per citarne alcuni (fonte: the complexity of loneliness).

    Prima di arrivare a darti alcuni consigli per gestire la solitudine vorrei aggiungere questo:

    In base alla mia pratica clinica, ho riscontrato che le persone che si sentono sole, spesso tendono ad autocommiserarsi ritenendosi responsabili della propria solitudine, come se “avessero qualcosa di sbagliato”, è invece utile per tutti comprendere che siamo “animali sociali” da sempre.

    Nel corso della nostra evoluzione, agli albori della nostra storia, radunarsi in gruppi è stata una strategia vincente dal punto di vista evolutivo, perché ci ha resi molto meno vulnerabili,

    Non a caso si dice che “l’unione fa la forza”.

    E’ quindi normale percepire una sensazione di solitudine, chi più chi meno, quando si prova quella sensazione di disconnessione dagli altri, quel senso di non appartenenza perché non si riesce a sentirsi parte del proprio gruppo di appartenenza, sia esso la famiglia, gli amici, o i colleghi di lavoro per esempio.

    Veniamo adesso ai miei consigli:

    1. Come prima cosa suggerisco di abituarsi a fare delle cose che piacciono anche se si è da soli. Per esempio uscire per una passeggiata, per andare ad una mostra, un museo, o una cena organizzata piuttosto che iscriversi ad una palestra, o ancora più in grande, partire per un viaggio.
      Non sembra ma questo suggerimento per molti è davvero difficile da mettere in atto, perché quasi subentra una sorta di vergogna nel presentarsi da soli a qualche evento o luogo. Invece non c’è niente di più sbagliato, perché se tutte le persone che si sentono sole adottassero questo comportamento, sarebbe molto più facile per tutti iniziare nuove frequentazioni, non lo immaginate nemmeno;
    2. Promuovere attivamente la ricerca di nuove amicizie, per esempio ci sono gruppi online dove si parla un po’ di tutto, ci sono corsi etc insomma bisogna buttarsi un po’ in modo da uscire da quell’isolamento nel quale la solitudine spesso relega.
      Chiaramente, con prudenza, poi se nascono delle frequentazioni assidue ci si può anche incontrare nella vita reale.
      Comunicare quotidianamente con qualcuno infatti, anche solo per messaggio, può essere di grande conforto perché la solitudine appunto spinge ancora di più ad isolarsi; ancora può fare bene iniziare una conversazione reale con un vicino, in coda al supermercato,… 
      Anche qui, vi invito a provare perché potreste rimanere sorpresi di quanto possa aver voglia di comunicare anche il vostro interlocutore.
    3. Non rifiutare di uscire se e quando si riceve un invito. Spesso meno si è abituati ad uscire e a frequentare altre persone e più si tende a ritirarsi dal panorama sociale, diciamo così.
      Invece se  capita di uscire con altri, bisogna cercare di essere curiosi, di fare domande, di mostrarsi realmente interessati all’altro, ma senza recitare, perché conoscere un’altra persona significa impattare un altro mondo, diverso da nostro, e non credo ci sia niente di più entusiasmante!
      Ovviamente vale anche il contrario, va bene fare domande per attivare la conversazione, ma bisogna anche essere disposti ad aprirsi e raccontarsi all’altro, vincendo quella  tendenza che si può avere, di rimanere al riparo del proprio guscio.
    4. Se si hanno delle passioni, è il momento di rispolverarle! Hai mai pensato di dipingere, di dedicarti alle piante o ad un animale domestico? Tutte queste o altre attività piacevoli, che possono procurare gioia e soddisfazione tendono a spegnere tutto il rimuginio mentale, dovuto a un dialogo interno negativo, al quale sicuramente porta la sensazione di solitudine.
    5. Bisognerebbe poi tenere un diario di quello che si prova quando ci si sente soli, scrivere le  emozioni nero su bianco, infatti, aiuta a processarle.

    Questi possono essere alcuni consigli per gestire la solitudine che possono essere applicati a molti.

    Ovviamente ci sono situazioni particolarmente difficili, come l’invecchiamento, la malattia, la separazione da un partner o avere una storia di maltrattamenti o abusi, tanto per citarne alcune, dove è consigliabile chiedere l’aiuto di un professionista esperto perché non si è in condizioni di poter essere parte attiva nel “sentirsi e trovarsi meno soli”.

    Altro caso a parte è quello di chi cerca attivamente la solitudine fisica o degli spazi solo per sé perché li considera dei momenti per dedicarsi alla propria crescita personale, e in questo caso la solitudine rappresenta un’opportunità.

    Per concludere la solitudine non è un problema mentale ma può condurre a svariate problematiche sia psicologiche che fisiche se è sofferta.

    L’esperienza che ciascuno fa della solitudine è personale così come quello che si prova.

    Un antidoto potente alla solitudine, qualsiasi ne sia la causa, a mio avviso è lamicizia, che oltre ad essere un valore estremamente importante nella vita di molte persone, svela la nostra vera natura, quella relazionale.

    Noi esseri umani abbiamo sviluppato il linguaggio proprio per comunicare e incontrare l’altro. Nell’amicizia possiamo realizzarci e trovare il conforto nei momenti difficili e la gioia nei momenti più belli.

    Molte persone entrano ed escono dalla nostra vita, ma i cari amici restano. Trovali seguendo anche i miei consigli.

    Comunque sia, vorrei che tu non dicessi più, mi sento solo, perché il primo amico già ce l’hai, te stesso.

  • Vivi la tua alta sensibilità come un dono

    Vivi la tua alta sensibilità come un dono

    E’ nel 2012 che la ricercatrice e psicoterapeuta Elaine Aron pubblica un riepilogo di tutte le ricerche esistenti in merito alla “sensibilità di elaborazione sensoriale” (sensory processing sensitivity).

    Le persone altamente sensibili sono circa il 20 per cento della popolazione.

    A differenza del restante 80 per cento di “normo sensibili” che utilizzano principalmente l’emisfero sinistro, quello più razionale e logico, la persona altamente sensibile utilizza maggiormente l’emisfero destro del cervello, ossia quello più sensibile, emozionale, creativo e immaginativo.

    In ragione di questa “minoranza” di persone altamente sensibili, troviamo la causa delle difficoltà da loro riscontrate nel trovare il loro “posto nel mondo” invaso, per cosi dire, da persone più razionali non sempre pronte a cogliere quella che io definisco la loro “delicatezza emotiva”.

    La persona altamente sensibile è molto empatica, vive le emozioni così intensamente da esserne a volte sopraffatta e spesso si sente in balia di eccessi emotivi come estrema gioia o estrema tristezza a seconda degli accadimenti.

    Predilige gli ambienti tranquilli e osserva tutti i dettagli del contesto in cui si trova. È molto riflessiva e quando prende una decisione lo fa dopo aver valutato tutti i possibili pro e contro di una scelta.

    Non è facile cambiare spesso umore o diventare all’improvviso tristi per un evento di poco conto, oppure sentirsi sopraffatti e influenzati da tutto quello che i sensi riescono a catturare, anche i più piccoli dettagli e sfumature,  che per i più passano inosservate, ma per una persona altamente sensibile diventano un pesante carico da gestire, con la conseguenza conseguenza di sentirsi soli, diversi e inadeguati.

    Se ti sei riconosciuto in questa descrizione ecco 12 consigli che ti aiuteranno a gestire la tua alta sensibilità:

    1. Impara ad ascoltare il tuo corpo e le emozioni che ti comunica
    2. Non allontanare le emozioni negative, cerca invece di comprenderne le cause
    3. Non dimenticare che quasi tutte le tue reazioni sono passeggere
    4. Quando provi forti emozioni trattieniti dall’agire d’impulso perché in un secondo momento potresti pentirtene, e la stessa cosa vale se devi prendere decisioni importanti, non farlo sotto la spinta emotiva perché potresti poi cambiare idea
    5. Non essere arrabbiato con te stesso, considera che non hai alcuna colpa per questa tua sensibilità, tu sei a posto così, ognuno ha le sue particolarità
    6. Piangi ogni volta che ne senti il bisogno, non c’è niente di sbagliato in questo, anzi, ti aiuterà a scaricare l’eccesso di emotività e dopo ti sentirai meglio
    7. Sii consapevole dei tuoi bisogni ed esprimili, in altre parole, rispettati
    8. Tieni un diario degli episodi che sono stati emotivamente più intensi, così da cercare di comprendere cosa li ha provocati
    9. Individua ciò che ti rende più forte e coltiva queste caratteristiche
    10. Scegli attività rilassanti per il tuo tempo libero
    11. Ricordati che alimentazione e sonno regolari possono svolgere un ruolo importante per l’equilibrio emotivo e gli sbalzi d’umore
    12. In ultimo, non dimenticare di fare regolarmente un po’ di attività fisica, in generale quella che preferisci, ma anche attività che possono aiutarti a connetterti con le tue sensazioni corporee, come lo yoga per esempio.

    Seguendo questi consigli, l’alta sensibilità inizierà a non essere più un problema o un disagio, e finalmente diventerà quello che avrebbe sempre dovuto essere, un bellissimo dono.

  • Aggressività

    Aggressività

    Aggressività

    L’aggressività fa parte della vita e, bene o male, tutti presentano questo tratto anche se magari in misura diversa anche perché laggressività ha svolto un importante ruolo nella sopravvivenza dellessere umano come specie. L’aggressività infatti, in una ottica etologica, rappresenta un istinto di base atto a favorire il proseguimento della specie, inoltre i soggetti più aggressivi hanno maggiori probabilità di vittoria nella competizione per il cibo e per la riproduzione tendendo quindi a trasmettere questo tratto alla prole.

    Negli animali, comunque, l’aggressività, soprattutto nelle specie che in caso di combattimento possono arrivare fino alla morte dei contendenti, viene spesso ritualizzata sottoponendola ad un processo di ri-direzione «La ri-direzione dell’attacco è l’espediente più geniale che l’evoluzione abbia inventato per costringere l’aggressività su binari innocui.» facendo entrare in gioco meccanismi di sottomissione che bloccano l’attacco. Questi meccanismi, squisitamente filogenetici, non si attivano nell’uomo; mentre quando, ad esempio, due lupi lottano quello che perde si arrende mostrando la gola e l’altro si blocca e il combattimento finisce, questo non accade tra gli esseri umani: se un contendete va a terra l’altro non solo non si ferma, ma utilizza la posizione di vantaggio.

    Laggressività ha anche unaltra funzione che è quella di determinare la posizione di un individuo allinterno di un gruppo o della società secondo il cosiddetto «principio gerarchico» (Lorenz) per cui conoscendo la propria posizione nella scala gerarchica, il più debole evita di competere con il più forte ed il più forte non attacca il più debole poiché sa che quello starà al suo posto. Questo funziona nel mondo animale ed evita l’estinzione della specie (almeno a causa della aggressività intra-specifica), ma non funziona tra gli esseri umani dove questi meccanismi inibitori naturali non esistono.

    Nell’evidenziarsi del comportamento aggressivo negli esseri umani si intrecciano sia componenti fisiologiche che componenti culturaliAlcuni sistemi neurali sono implicati nella sua genesi (Amigdala, Tronco encefalico, Sistema limbico) ed alcuni ormoni sembrano essere coinvolti in particolare nella modulazione di questo tipo di comportamento, come il testosterone che sembra essere presente in quantità maggiore nei soggetti aggressivi. Dato che il testosterone è un ormone maschile, il suo collegamento con i comportamenti aggressivi sembrerebbe spiegare la maggiore tendenza degli uomini, rispetto alle donne, a condotte di tipo aggressivo anche se tutto questo viene poi modulato dalla cultura. Se guardiamo invece la genesi del comportamento aggressivo dal punto di vista dei neurotrasmettitori coinvolti, vediamo che la serotonina mostra una azione inibente, mentre acetilcolina e noradrenalina sembrano avere una azione favorente.

    In genere si tende a porre in evidenza l’esistenza di due tipologie principali di comportamento aggressivo.

    Si parla pertanto di aggressione ostile, che appare essere impulsiva, connotata da una intensa partecipazione emotiva e da una forte spinta a creare un danno, e di aggressione strumentaleche, invece, è pianificata e portata avanti a mente fredda ed ha lo scopo di ottenere un qualcosa, ma non ha lo scopo principale di creare un danno anche se magari può farlo: il suo scopo principale, infatti, è la ricerca di un tornaconto personale.

    Rabbia ed aggressività vengono spesso collegate, ma ricordiamo che essere arrabbiati non implica forzatamente diventare aggressivi: la rabbia, infatti, rappresenta un’emozione che non conduce forzatamente ad una azione.

    L’eccitazione prodotta dalla rabbia rende pronti a portare avanti un’azione aggressiva, ma affinché la reazione aggressiva si attui nella pratica sono necessari degli stimoli associati, presenti o precedenti, che inviino segnali adeguati. 

    Se vediamo l’aggressività in un’ottica di psicologia sociale, possiamo definirla come un comportamento che ha come scopo quello di danneggiare un individuo che non desidera subire il danno. In questa definizione viene quindi specificato che per parlare di aggressività in questo ambito è necessario che sia percepito un intento aggressivo, ad esempio in un incidente d’auto, pur essendoci un danno, non c’è aggressione dato che non c’è l’intento aggressivo, inoltre questo intento deve essere volto anche a danneggiare la persona: il medico che procura dolore nel fare un trattamento necessario non attua un’azione che rientra nell’ambito di un comportamento aggressivo dato che l’intento non è di danneggiare il paziente ma di fargli del bene. Ma sempre in questa ottica, l’aggressione non deve essere forzatamente fisica, ma può essere anche verbale o sociale od anche relazionale. Questi tipi di aggressione, in una società come la nostra, tendono ad essere più utilizzati dato che permettono di aggredire senza apparire palesemente aggressori e quindi mantenendo il rispetto sociale del nostro gruppo di appartenenza. Parlare alle spalle di qualcuno criticandolo, spettegolare, isolare qualcuno dal gruppo, sono tutti esempi di aggressività di tipo sociale che non implicano un confronto fisco, ma che non sono per questo comportamenti meno aggressivi: sono solo più subdoli.

    Esistono personalità aggressive?

    Ci sono cioè soggetti il cui stile di vita ed il cui modo di relazionarsi è fondamentalmente improntato all’aggressività?

    Questa tipologia di personalità, ed il comportamento che ne deriva, ha varie origini che sono sia biologiche che ambientali, inoltre mostra dei tratti in comune con la personalità di tipo narcisistico.

    Ma cosa caratterizza una personalità di tipo aggressivo?

    Innanzitutto c’è la ricerca della dominanza. Questo si applica nelle relazioni ma anche in qualsiasi altro contesto anche a quelli sociali. Sono soggetti che non tollerano l’autorità, che non sia la loro, e questo li porta spesso ad essere in contrasto con la società. Possono adattarsi formalmente, perché non possono farne a meno, ma dentro continueranno a ribollire. I diritti degli altri interessano loro poco, o meglio, nulla, e se serve possono calpestare i diritti di coloro che stanno loro intorno senza pensarci due volte. Molto semplicemente ritengono che nella vita ci siano vincitori e vinti… e loro vogliono vincere.

    Questi tratti aggressivi si possono manifestare a qualunque età anche se con caratteristiche e spesso motivazioni differenti.

    Nei bambini il comportamento aggressivo spesso è determinato dal non avere capacità relazionali, o averle carenti, ma anche da comportamenti di tipo imitativo: un bambino che vede comportamenti violenti nella sua quotidianità tenderà a relazionarsi in maniera violenta con gli altri. In caso di comportamento aggressivo in un bambino è necessario che le figure di riferimento stiano attente a come reagiscono: dare molta attenzione al comportamento aggressivo di un bambino può portare al risultato opposto a quello desiderato: l’attenzione è vista come un premio e porta a reiterare l’azione. A questo si possono aggiungere poi i comportamenti violenti che hanno alla base delle vere e proprie patologie come ad esempio l’autismo: ovviamente in questi casi l’intervento deve essere inserito in una terapia complessiva del disturbo che sta alla base e sostiene il comportamento.

    Negli adolescenti i comportamenti palesemente violenti tendono ad essere più comuni rispetto a quello che si riscontra nei bambini e negli adulti. Certi comportamenti, tipo discutere violentemente, urlare, avere un atteggiamento che può apparire brusco e maleducato, sono frequenti in un momento di stress e passaggio come quello dell’adolescenza. Tutto questo fino a che non si esagera, se urlare diviene l’unico modo di parlare, se ci sono comportamenti da bullo, se alzare le mani diviene un modo di comunicazione allora è il momento di correre ai ripari.

    Nel contesto delle problematiche relative al comportamento aggressivo in bambini ed adolescenti va sottolineata limportanza del ruolo della famiglia in generale e dei genitori in particolare. Come evidenziato ad esempio nello studio di Wilz e Patterson un appropriato training applicato alle figure genitoriali comporta «[…] una riduzione significativa del tasso di comportamento deviante dei bambini. Nel trattamento della aggressività nel bambino, ma poi anche nell’adolescente, sono necessari, secondo Sukhodolsky e al. oltre alla valutazione delle motivazioni precedenti e delle conseguenze dell’atto aggressivo, «[…] l’apprendimento di strategie per riconoscere e regolare l’espressione della rabbia, le tecniche di risoluzione dei problemi e di ristrutturazione cognitiva […]», ed anche qui si afferma la necessità della partecipazione attiva dei genitori.

    Risulta pertanto evidente come non si possa agire solo sul soggetto aggressivo ma sia necessario un intervento terapeutico che riguardi anche lambiente socio-familiare.

    In caso di comportamenti aggressivi manifesti, a prescindere da chi sia il soggetto, è sostanziale identificare le cause sottostanti questo comportamento e che lo sostengono: infatti questa modalità relazionale ha un suo motivo profondo che va identificato per poter arrivare ad una soluzione.

    Necessario appare sia identificare quegli schemi cognitivi che portano ad un comportamento aggressivo, sia comprendere come vengono elaborate le informazioni sociali nei soggetti tendenzialmente aggressivi. La società ha quindi una sua rilevanza nella determinazione dellattuarsi di comportamenti aggressivi, anche se la maggior parte delle società attuali tende a mostrare modelli che hanno lo scopo di limitare l’aggressività, e questo appare ovvio se si considera che lo scopo della società è di mantenere coeso il gruppo sociale.

    Altra cosa importante è che la persona che manifesta comportamenti aggressivi sia guidata verso l’implementazione di strategie che la aiutino ad adottare comportamenti adeguati in tutte quelle situazioni che possono essere causa di frustrazione o di stress ed inoltre può rivelarsi utile cercare di sviluppare nel soggetto lempatia verso gli altri.

    L’aggressività, e di conseguenza i comportamenti aggressivi, sono, come abbiamo visto, non solo un fenomeno complesso ma anche un fenomeno che ha una genesi multifattoriale e che è insito nella natura umana, pertanto se da un lato è sostanziale l’intervento dello psicoterapeuta per porre rimedio alla problematica, dall’altro non dobbiamo dimenticare che è necessario un intervento attivo di tutti quei soggetti che rivestono un ruolo educativo e che quindi possono svolgere una prevenzione attiva.

  • Body shaming

    Body shaming

    Body shaming

    Sentirsi ogni tanto scontenti del proprio aspetto e provare magari un podi vergogna è una cosa normale. A chi non è capitato di guardarsi allo specchio e dirsi: «devo andare dal parrucchiere questo colore di capelli mi fa sembrare vecchia», o «magari se perdessi un paio di chili non sarebbe male.»

    Fino a che questo resta un pensiero momentaneo che passa senza mettere ansia o magari ci spinge a migliorarci non è niente di preoccupante, diverso è quando diventa un pensiero, ma anche una vergogna, costante e si trasforma in un impedimento.

    La nostra attuale cultura è una cultura prevalentemente visiva, ed anche molto tendente verso il virtuale, in cui quindi l’apparenza ottiene un posto preponderante. Questo porta come conseguenza un aumento delle problematiche che possono essere connesse con un aspetto fisico ritenuto non ottimale o comunque non rispondente ai canoni estetici dominanti. Esiste infatti una nozione di bellezzache è soggetta a canoni che, ovviamente, variano a seconda dell’epoca e della cultura per cui ci sarà sempre chi rimane al di fuori di questi canoni. Il non rispondere alla nozione di bellezza accettata e condivisa dalla società può portare, oltre al sentirsi inadeguati, a subire quella che possiamo definire come una nuova tendenza che imperversa soprattutto sui social media, social media dei quali non possiamo sottovalutare l’importanza in una società visiva e virtuale come l’attuale: il body shaming.

    Il body shaming viene definito da M. Grandi nel suo libro Far Web come “nuova tendenza di chi, sui social media, offende e prende in giro il corpo delle persone, in particolare quello di utenti donna”, ma in effetti il body shaming non è appannaggio solo del web infatti in senso lato, come specifica l’Oxford Learner’s Dictionaries, si definisce con questo termine “la pratica di fare commenti negativi sulla forma o sulle dimensioni del corpo di una persona”, per cui si può essere oggetto di body shaming in qualunque contesto di tipo sociale. È anche vero, però, che il web amplifica e rende più facile questa pratica dato che certi commenti, che vengono scritti protetti dallanonimato del web, non sarebbero magari proferiti di persona, in quanto la persona che li fa non avrebbe il coraggio di esporsi “di faccia”.

    Il body shaming va ad intaccare innanzi tutto limmagine corporea di chi subisce questo attacco.

    Ognuno di  noi ha una sua propria immagine corporea ed è tanto umano quanto normale voler essere attraenti, ma ricordiamo che l’immagine corporea va oltre il semplice concetto di “essere attraenti” quando ci si guarda allo specchio, ma comprende anche come ci si immagina nella propria mente, implicando anche cosa la persona crede del suo aspetto, come si sente con il suo corpo e come lo percepisce anche fisicamente

    Le donne appaiono più soggette sia al body shaming sia alle conseguenze di questa pratica. Prendendo in considerazione la Teoria delloggettivazione (B. L. Fredrickson & T.-A. Roberts, 1997) non possiamo non notare come la nostra attuale società spinga le donne ad interiorizzare il punto di vista di colui che le osserva per cui le giovani donne, ma soprattutto le ragazze, imparano ad interessarsi a tutti quegli aspetti corporei che gli altri possono osservare a discapito della autoconsapevolezza dei propri stati emotivi e della propria interiorità. Da questo si passa alla cosiddetta auto-oggettivazione cioè al continuo monitoraggio che va totalmente a discapito della consapevolezza interiore aprendo la porta all’aumento sia della vergogna che dell’ansia. Come hanno mostrato Tiggeman e al. nel loro studio del 2001, con l’aumentare dell’età, mentre l’insoddisfazione per il proprio corpo tende a rimanere stabile, il monitoraggio abituale del corpo e l’ansia relativa al proprio aspetto tendono a diminuire. Proprio per questo appare necessario agire sui giovani sia per evitare, prevenendolo, il body shaming sia per arginare le sue conseguenze.

    Essere soggetti a body shaming infatti può portare a sviluppare problematiche di tipo psicologico, questo accade soprattutto se il body shaming è molto frequente o, per qualsiasi motivo, il suo impatto sulla persona che lo subisce è alto. Le problematiche psicologiche che più frequentemente si registrano sono ansia, depressione ed isolamento sociale, ma non solo, il body shaming può portare anche a disturbi della condotta alimentare come l’anoressia o la bulimia.

    Soprattutto le ragazze, soggette più di altri alla pressione dei social media, possono tendere a voler modificare il proprio corpo per adattarsi ai teorici dettami della società con tutta una serie di conseguenze sempre più negative.

    Il body shaming inoltre finisce talvolta per essere un problema sia per colui che lo subisce sia per colui che lo attua. Infatti anche colui che attua il body shaming è portato spesso a porre simili critiche anche al proprio aspetto e finire esso stesso per non riuscire ad accettare il proprio corpo con i suoi pregi ed i suoi difetti.

    Dato che il body shaming altro non è se non una forma di bullismo tenderà a continuare ad essere presente, come in effetti accade per ogni tipo di bullismo, per quanto ci si possa sforzare per arginarlo. Anche per questo l’azione deve essere portata non solo su chi pratica il body shaming ma anche su chi lo subisce.

    Praticare laccettazione e lamore per se stessi è il primo passo da compiere cercando anche di buttarsi alle spalle i commenti negativi. A questo si aggiunge il rendersi conto che le immagini ideali che vediamo rappresentare la donna “bella” (o anche l’uomo) sono di solito solo immagini frutto di un sapiente uso di Photoshop e, pur sembrando reali, non lo sono, comprendendo anche che non solo ed unicamente lo specifico tipo di corpo proposto sia accettabile, ma che ognuno di noi ha una sua propria bellezza. Rifiutare poi l’oggettivizzazione, e soprattutto lauto-oggettivizzazione che rappresenta un fattore chiave nel provare vergogna per il proprio corpo; infatti più una persona si auto-oggettiva più vergogna tende a provare, per cui si crea un ciclo in cui la vergogna che il soggetto prova lo fa concentrare sempre di più sul proprio corpo e di conseguenza si crea ancora più vergogna: interrompere questo ciclo è indispensabile. Bisogna smettere di pensare al proprio corpo come ad un oggetto la cui esistenza e benessere dipendono dall’accettazione, dall’approvazione o dalla disapprovazione effettuata dagli altri e, di conseguenza, smettere di pensare a se stessi come ad un oggetto, una decorazione, soggetta all’altrui approvazione.

    Tutti possiamo poi fare qualcosa anche se non siamo noi stessi oggetto di body shaming, in particolare, se vediamo episodi di body shaming on-line,  dobbiamo segnalarli e indicarli come contenuti inappropriati in modo che vengano arginati.

  • Odiare il diverso

    Odiare il diverso

    Odiare il diverso

    Odiare ciò che è diverso rappresenta, purtroppo, un sentimento abbastanza comune che ha alla sua base fattori diversi.

    Perché è importante conoscere questi fattori? Perché il conoscerli, portando alla comprensione del fenomeno, fornisce utili strumenti per porre rimedio.

    Il primo fattore di cui tenere conto è la paura.

    Il diverso ci fa paura.

    Ognuno di noi si identifica in un gruppo sociale di appartenenza: quando ci ritroviamo con persone che fanno parte del nostro stesso gruppo tendiamo a minimizzare la differenze, che pure esistono, ed a porre l’accento su ciò che ci rende simili. Per lo stesso meccanismo, quando ci troviamo con soggetti che non appartengono al nostro gruppo tendiamo invece a porre l’accento sulle differenze e a non vedere, o minimizzare, ciò che ci rende simili. Entra qui in campo anche il concetto di identità etnica, concetto questo caldeggiato da alcuni antropologi, che vede i gruppi etnici come un qualcosa di fisso e permeato da una identità culturale, ma in genere l’identità etnica si costruisce sulla base di un gruppo sociale che si differenzia da un altro gruppo sociale. Come abbiamo visto prima per il “gruppo” in generale anche il sentirsi parte di un certo gruppo etnico porta come conseguenza il massimizzare le similitudini con gli appartenenti al proprio gruppo (etnico in questo caso) e minimizzare al contempo le differenze. In altre parole quando si odia un gruppo sociale, od una etnia, il gruppo di cui non facciamo parte viene visto come un tutto omogeneo in modo da poter effettuare una generalizzazione partendo dal comportamento negativo di un singolo membro del gruppo, comportamento che viene poi generalizzato a tutto il gruppo (Fischer e al. ,2018).

    Il sentirsi parte di un gruppo, sociale od etnico che sia, porta, come sua diretta conseguenza, la necessità di difendere il gruppo stesso e si porta dietro delle emozioni fondamentali cioè la paura, l’ostilità ma anche la gioia, il tutto difeso dai pregiudizi verso coloro che non fanno parte del nostro gruppo, pregiudizi che sono atti a giustificare, oltre che a mantenere, la struttura all’interno del nostro gruppo di appartenenza (Brewer,2007).

    Come afferma Freud “È sempre possibile riunire un numero anche rilevante di uomini che si amino l’un l’altro fin tanto che ne restino altri per le manifestazioni di aggressività” (Freud, Il disagio della civiltà, 1929)

    Ricordiamo infatti che risulta molto più facile provare odio verso un intero gruppo che verso una singola persona anche perché se si odia un gruppo si può dare sfogo a pregiudizi e generalizzazioni e non si è bloccati dall’empatia che in genere si tende a provare verso una persona singola.

    Inoltre odiare l’altro, il diverso, colui che non fa parte del nostro gruppo appare essere anche un’adattamento evolutivo che ha permesso ai nostri lontani antenati di competere con altri gruppi per le risorse in generale e per il cibo in particolare

    Ma non finisce qui.

    Nell’altro, spesso odiamo quelle caratteristiche che sono presenti in noi stessi ma che temiamo e soffochiamo. Per essere accettati nel nostro gruppo di appartenenza siamo costretti a a rigettare ciò che di negativo o semplicemente moralmente biasimevole abbiamo in noi. Non solo, odiare una certa categoria, provare disprezzo per chi non appartiene al nostro gruppo, ci permette di trovare una facile capro espiatorio e di non focalizzarci sulla nostra propria inadeguatezza.

    Bisogna poi ricordare che anche certe caratteristiche della società in cui viviamo, fondata sulla competizione e non dotata della flessibilità necessaria per accogliere l’altro, il diverso, rendono più facile lo svilupparsi di un odio per ciò che viviamo come diverso, come appartenente ad un altro gruppo.

    Odiare il diverso, in senso generale cioè inteso come non appartenente al nostro gruppo, è diverso dallodio che proviamo verso una singola persona che magari ci ha fatto un torto, vero o presunto, e molto più difficile da eradicare.

    Quando, per un qualsiasi motivo, abbiamo delle difficoltà con un singolo individuo, possiamo adottare strategie di risoluzione del conflitto come parlare con la persona oggetto del nostro odio, cercare di essere empatici ponendoci nei panni di quella persona o semplicemente mantenere le distanze, non solo fisiche, ma anche psicologiche dall’oggetto de nostro odio.

    Superare la paura e l’odio verso chi non appartiene al nostro gruppo appare per certi versi più difficile in quanto ha risvolti sociologici, antropologici e culturali a volte profondamente radicati. Importante appare essere la valorizzazione di ciò che ci rende simili all’altro e la non focalizzazione su ciò che ci rende diversi.  È poi importante rendersi conto del fatto che spesso il non riuscire a convivere con l’altro ha alla base la difficoltà che abbiamo a convivere con noi stessi: non accettiamo laltro perché in fondo non riusciamo completamente ad accettarci, non ultimo poi è il rifiutare una retorica basata sulla sopraffazione per arrivare ad una dialettica consapevole e rispettosa dei propri diritti e di quegli degli altri e che abbia alla base l’amore per se stessi e per il prossimo, poiché come afferma Gandhi: “L’odio può essere sconfitto soltanto con l’amore. Rispondendo all’odio con l’odio non si fa altro che accrescere la grandezza e la profondità dell’odio stesso.”